La religione

Bollettino Salesiano di Dicembre 2002

L'educatore di Bruno Ferrero

IL GRANDE ESCLUSO

Una mamma si preoccupa di fondare le basi della vita morale del suo bambino, approfittando della "sparizione" di alcuni dolci conservati nella credenza del salotto...
"Lo sapevi che quando hai rubato la tortina, Dio era lì con te, anche se io non vedevo?". "Certo", fece il bambino annuendo vigorosamente. Ma i dolci continuarono a sparire. Pazientemente la mamma riprese: "Lo sapevi che in quel momento Dio ti vedeva?". "Certo". "E che cosa pensi che ti abbia detto, mentre tu rubavi il dolce?". "Mi ha detto: qui ci siamo solo io e te, prendine due!".

Aveva ragione il bambino, naturalmente. Dio non fa la guardia a niente, neanche ai cimiteri dove molti lo hanno relegato. E dovendo scegliere tra i biscotti e me, senza ombra di dubbio Dio sceglie me. Quante "maschere" vengono affibbiate a Dio da educatori che hanno tanta buona volontà? Chi in seguito libererà i bambini da immagini di un Dio "guardone", giudice terribile o Babbo Natale? Altri, la maggioranza, hanno semplicemente scelto il silenzio. Un tempo si diceva che i due argomenti tabù tra genitori e figli fossero il sesso e Dio. Oggi è rimasto solo Dio. Gesù, nel Vangelo, si arrabbia molto con quelli che impediscono ai bambini di avvicinarsi a lui: "Lasciate che i bambini vengano a me". Ci sono anche genitori seriamente imbarazzati che non sanno come affrontare l'argomento, allora affermano: "Quando saranno grandi sceglieranno loro". Raramente funziona, il più delle volte nella vita dei figli Dio diventa il grande escluso. Non lasciano Dio: non l'hanno mai conosciuto.
Eppure la famiglia è il luogo dove normalmente si deve incontrare Dio. Ma anche i genitori non possono dimenticare il più semplice dei principi pedagogici: nessuno può portare un altro se non dove è già stato. In famiglia, Dio si deve "respirare", semplicemente, come uno di casa. La sua presenza si rivela nell'importanza data all'interiorità, negli avvenimenti grandi e belli, nell'amore reciproco, nella responsabilità degli uni verso gli altri, nel coraggio, nel perdono e nella speranza. I genitori non devono mai dimenticare che Dio non è un "vago sentimento" religioso, ma una persona, realmente presente. Dio è il papà di Gesù. E' importante arrivare a Dio lasciandosi portare da Gesù.

IL PAPÀ E LA BIBBIA

Questo significa, da una parte, l'enorme importanza e responsabilità del papà che, come affermano innumerevoli ricerche di seri istituti universitari, è la prima immagine viva di Dio per i suoi figli. Un papà testimonia concretamente l'amore incondizionato, la protezione, l'incoraggiamento, la capacità di distinguere il bene dal male. Un bambino impara il Padre Nostro avendo ben impresso il "timbro" del proprio papà. In secondo luogo, la necessità di leggere la Bibbia insieme, in famiglia. Anche la Bibbia è una "grande sconosciuta" delle famiglie italiane. Le letture bibliche della domenica sorvolano teste piene di indifferenza. Dopo la lettura del brano di Vangelo in cui era protagonista Giovanni Battista, un parroco si rivolse ai bambini e con un sorriso chiese: "Allora, chi è quel personaggio del Vangelo che si veste di pelli di animali e vive nel deserto in mezzo alle belve?". Quasi all'unanimità, i bambini risposero: "Tarzan!". E' quotidianamente provato che, in maggioranza, gli italiani, anche quelli che hanno frequentato catechismo parrocchiale e scuola di religione, non conoscono la Bibbia. Sanno citare episodi e personaggi emblematici come Mosè, Adamo ed Eva, i Re Magi o i Dieci Comandamenti, ma non sentono la differenza tra la Bibbia e un libro qualsiasi. La parola della Bibbia è invece una parola viva, che riguarda il presente e non il passato, che riguarda la vita di ogni essere umano, che dà senso e significato all'esistenza. E' l'unico libro che chiede al lettore di prendere posizione. L'Arca di Noè non è un raccontino edificante e divertente. Attraverso le parole bibliche, arriva a noi la voce del Dio vivo che chiede a ciascuno, nella propria vita, con le sue doti uniche, di costruire a sua volta, come Noè, un'arca, una comunità d'amore, di opporre la pace alla guerra, l'amore all'odio, l'unione alla disgregazione, l'accoglienza all'esclusione. Per troppi la Bibbia è soltanto "parola polverosa". Non ne sentono il gusto, la forza, il profumo, l'appello. Se tutto questo è vissuto in famiglia i bambini non lo dimenticheranno mai.

CELEBRARE LA VITA

Dal contatto vivo con la Bibbia nascono la preghiera e l'incontro con la comunità ecclesiale. Così la partecipazione all'Eucaristia domenicale della famiglia diventa la celebrazione di ciò che si vive. Del resto solo i genitori possono pronunciare con profonda verità le parole Prendete e mangiate, questo sono io. Quando tutta la famiglia è riunita a tavola, che cosa mangiano i figli? Non forse pezzi di mamma e papà, pezzi della loro vita, del loro lavoro, delle loro preoccupazioni? Accogliere Dio nella propria casa è sentire tutta la bellezza e la grandezza della vita, è essere ricchi di ciò che conta davvero e avere il cuore colmo di gratitudine, risentendo le parole del padre della parabola dei due figli raccontata da Gesù: "Figlio mio, tu sei sempre con me e tutto quello che ho è tuo".

Il genitore di Marianna Pacucci

OLTRE LA PORTA SOCCHIUSA

"Fanno tutti così!"... Ma non è detto che sia vero e giusto ciò che è diventata una prassi comune. In certi casi la diffidenza è d'obbligo. Essere neutrali riguardo ai problemi religiosi è una posizione discutibile, e peggio!

In tempi in cui non si è alla moda, se non si dimostra ampio riconoscimento del pluralismo culturale che domina la società e se non ci si comporta da adulti tolleranti nei confronti dell'autonomia dei figli, sicuramente appare poco opportuna la scelta di impartire un'educazione religiosa ai bambini e può sembrare quasi una prevaricazione la richiesta del battesimo di un neonato. Credo però sia giusto essere sempre un po' diffidenti verso ciò che rischia di essere vero solo perché praticato dalla maggior parte delle persone e provare a pensare con la propria testa valutando se vale la pena proseguire in un comportamento che forse è tradizionale, ma non per questo necessariamente va rimosso dalla vita famigliare.
E qui occorre fare un passo indietro: prima di decidere se sia giusto attribuire ai figli un'appartenenza religiosa, credo che dovremmo chiederci, come genitori, se sia possibile esprimere il nostro ruolo adeguatamente senza dover mai affrontare la responsabilità di comunicare e testimoniare determinati valori che sostengono la nostra vita quotidiana. Chi di noi rinuncerebbe sempre e comunque a indicare un orientamento etico partendo dalla propria personale esperienza e da tutto ciò che ha maturato nel corso dell'esistenza? Chi fra noi penserebbe di amare davvero i propri ragazzi proponendo sempre e solo la strategia della neutralità assoluta, dell'equidistanza rispetto a qualsiasi ideale? Questa posizione non solo è di fatto impraticabile, perché ciascuno di noi - gli piaccia o meno - in fondo non può fare a meno di essere se stesso quando si relaziona con gli altri e soprattutto quando assume il compito di educare un'altra persona; ma è anche stupida, perché non serve a costruire nei ragazzi la capacità di porsi domande, di imparare a prendere posizione, perfino la libertà di rifiutare l'esempio e l'esperienza dei grandi. Peraltro la stessa indifferenza è, alla resa dei conti, una scelta, anche se di basso profilo, soprattutto se attuata dall'adulto senza una riflessione un po' più consapevole e lungimirante.
Vale dunque la pena, come genitori, avere il coraggio di fare proposte ai figli su tutti i fronti, compreso quello religioso. Se si è credenti, è una prospettiva coerente: è il più bell'atto d'amore offrire ai bambini quello che per noi costituisce un bene importante, un criterio di orientamento che dà qualità alla vita. Se non si è credenti, può essere importante accettare di condividere con i figli la scommessa su qualcosa che non può essere liquidato in fretta e a buon mercato. Camminare insieme lungo la strada della ricerca religiosa credo che sia un'esperienza fondamentale per accrescere il dialogo e la solidarietà fra le generazioni. Anche in questo caso però non basta un'apertura vaga e indistinta: molti ragazzi, divenendo adulti e scontrandosi con le difficoltà della vita, non hanno perdonato ai propri genitori di essersi limitati a presentare un'immagine opaca del sacro, nascosta dietro una porta socchiusa. Anche perché spesso hanno purtroppo verificato che quella porta poteva essere spalancata o serrata solo perché faceva comodo dare o negare qualche minuto di ospitalità a Dio.
Quello che invece i figli vorrebbero sapere dai loro genitori, è se hanno incontrato veramente il volto di Dio, se vivono abitualmente la compagnia di Gesù, se l'appartenenza alla Chiesa li ha resi più responsabili e protagonisti nella realtà in cui ordinariamente vivono. I ragazzi lo dicono a bassa voce, perché la religione rappresenta per molti di loro un tabù, qualcosa di cui non è conveniente parlare né con i coetanei né con i grandi: però il loro bisogno più vero, negli anni della crescita, è capire se veramente è possibile ancora oggi vivere l'intimità dell'amicizia con Dio. Molti di loro non si accontentano più che noi adulti gli comunichiamo la nostalgia di un Padre; vogliono poter danzare la vita sul ritmo della musica che sperano Lui continui a comporre per tutti gli uomini della terra.
È una speranza che obbliga noi adulti a fare chiarezza in noi stessi, per diventare capaci di proporre ai figli un'educazione religiosa che non li condanni ad un eterno infantilismo della fede.

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